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La maratona di Feysa Lilesa: non perseguitate il mio popolo

L’ultimo giorno di Olimpiade comincia a circolare per i computer e le tv di tutto il mondo un’immagine. Un maratoneta, secondo al traguardo, fa il gesto delle manette. Si chiama Feyisa Lilesa, è etiope. Ma che cosa vuol dire con quelle mani incrociate sopra la testa? Dopo un po’, nella conferenza stampa, è lui stesso a spiegare: “Voglio denunciare la persecuzione di cui è vittima il popolo Oromo, il mio popolo in Etiopia”. Gli Oromo sono un gruppo etnico particolarmente numeroso in Etiopia (circa 24 milioni di persone) ma poco rappresentato nei centri del potere. La medaglia d’argento è un mezzo per una denuncia. Un gesto duro, forte, che avrà delle conseguenze sul futuro del maratoneta e della sua famiglia.

Subito dopo la fine dell’Olimpiade di Rio, il maratoneta decide di non tornare a casa, di restare all'estero per raccontare quello che sta capitando agli Oromo. Resta in Brasile, poi si trasferisce negli Stati Uniti. In Etiopia, rimangono la moglie e i due figli. Feyisa è il secondo di sette fratelli, uno dei quali è stato arrestato per aver denunciato le stesse cose che il maratoneta ha gridato al mondo con quel gesto. Il gesto di Lilesa è stato studiato per settimane. “Tre mesi prima ho preso la decisione. Se avessi vinto una medaglia, avrei manifestato in qualche modo il mio rifiuto di ciò che sta accadendo nel mio Paese”.

E ora? La speranza è che l’iniziativa di Lilesa possa tenere accesi i riflettori sul destino della sua gente. L’Etiopia è il Paese della maratona: qui nacque, si allenò e costruì le sue vittorie, il grande Abebe Bikila, medaglia d’oro (a piedi nudi) a Roma 1960 e (con le scarpe) a Tokyo 1964. E anche lui era un oromo.